Intervento di Rodolfo Sabbadini – Convegno S.I.Co.

Pubblichiamo, di seguito, il testo integrale della relazione del direttore della nostra scuola, Rodolfo Sabbadini, dal titolo “Le abilità di counselling negli universi della relazione e del problema”, presentata al 15° Convegno Nazionale della Società Italiana di Counselling, SICo, sul tema “Abili, capaci o competenti? Le abilità del counselling in azione, nella persona e nelle professioni”.

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15° Convegno Nazionale S.I.Co

Le abilità di counselling negli universi della relazione e del problema

di Rodolfo Sabbadini

  1. Contestualizzazione storica e sociale

Ricollegandomi alle parole della Presidente del Consiglio Superiore della Sanità, Roberta Siliquini, che mi ha preceduto, e accogliendo le indicazioni dei promotori del Convegno, prenderò le mosse da una concezione di counselling storicamente caratterizzata per centrare poi la mia attenzione su abilità e competenze trasversali delle quali possono beneficiare diverse professioni.

Come tutti noi ben sappiamo, non esiste una definizione di counselling formalmente sancita, tale da avere efficacia erga omnes. Pertanto, le discussioni che si sviluppano intorno alla sua natura, si traducono in vuota retorica quando manca il riferimento ad una concreta fattispecie che consenta, a chi ascolta, di comprendere quali sono le azioni e le parole che caratterizzerebbero l’agire del professionista.

Molti autorevoli pensatori (certamente il sociologo Ulrick Beck con il suo “La società del rischio” è tra i più accreditati) hanno evidenziato che il crollo dei riferimenti culturali, scientifici, economici e sociali, che caratterizzano l’era postmoderna, hanno portato al fenomeno definito dell’individualizzazione, a causa del quale ognuno di noi è chiamato ad essere un “coproduttore della conoscenza”.

Cosa vuol dire farsi coproduttori di conoscenza?

Vuol dire che disponendo delle diverse indicazioni offerte, per esempio dalla scienza, indicazioni che sono spesso, se non proprio contraddittorie tra loro, almeno ugualmente attendibili, spetta a noi scegliere la strada da seguire, integrando queste informazioni con le nostre conoscenze e adottando un approccio pragmatico alla vita quotidiana. Insomma, spetta a noi, volta per volta, attivare l’intuizione, la saggezza e l’esperienza necessarie per conciliare il linguaggio dei nostri obiettivi con quello delle indicazioni che ci vengono dal mondo, creando così il ponte tra i dati parziali che riusciamo ancora ad acquisire dai riferimenti esterni e l’azione che porremo in essere.

Credo che il counselling possa rappresentare una risorsa professionale perfetta e nuova in questo contesto.

Come detto in premessa, tuttavia, è importante chiarire che cosa intendiamo per counselling, a quale concreta fattispecie operativa intendiamo fare riferimento.

  1. Il counselling come professione postmoderna

In questa società dell’incertezza o, per dirla con Ulrick Beck, del rischio, è possibile che le persone cerchino l’alleanza con un professionista che si affianchi a loro per lavorare su tematiche puntuali e definite, che implichino l’analisi di dati oggettivi, la loro organizzazione, la loro integrazione e – soprattutto – la loro proiezione in uno scenario futuro, concordato insieme, nel quale potranno accomodarsi strategie e scelte.

Non si tratta soltanto di integrare le competenze di tanti professionisti con le cosiddette “abilità comunicative” o di “gestione della relazione”, certamente utili a un medico, ad un avvocato o ad un assistente sociale per meglio comprendere il cliente e meglio relazionarsi a lui, ma di valorizzare la propria, specifica professionalità con una professionalità integrativa, che offra un servizio ulteriore, coerente con i tempi attuali.

Se l’avvocato propone al cliente due strategie, evidenziando – per esempio – che la prima comporta l’ammissione di colpa e una probabile sanzione benevola, mentre la seconda implica l’affermazione di innocenza con un lungo e costoso percorso giudiziale che potrà sfociare, però, nell’assoluzione, l’avvocato – dicevamo – avrà portato a termine il suo compito professionale. A questo punto potrà innestarsi (oppure no) la professionalità di counselling. L’avvocato potrà affiancarsi al cliente, prendere in esame la sua situazione economica, lavorativa, famigliare, i suoi obiettivi e – insieme a lui – lavorare per rappresentare diversi scenari possibili dell’una e dell’altra opzione, parimenti adeguate sotto il profilo processuale, tenendo conto della condizione di base del cliente.

Il medico prospetterà, nel dettaglio, al cliente, i vantaggi e le controindicazioni che ravvisa per curare la sua patologia con i farmaci, oppure attraverso un intervento chirurgico: esattamente questo gli chiede la sua professione di medico. Il cliente sarà informato e dovrà decidere. Il medico, però, potrà andare oltre, condividendo la prospettiva del cliente e, quindi, lo scenario economico, famigliare e sociale, professionale, etico che lo caratterizza, nonché gli obiettivi che si pone a breve, medio e lungo termine, per concordare con lui, per lui, le azioni più utili e convenienti, tra quelle inizialmente prospettate, che egli ritiene egualmente efficaci sotto il profilo sanitario.

Per non cadere nella trappola dell’opacità, che sovente caratterizza queste discussioni, dichiaro subito qual è il mio intento: è quello di articolare, tra le tante possibili, la concezione di un counselling capace di rispondere alle domande sollecitate dal contesto sociale appena descritto. Essa implica che il counselling non si occupi di problemi ancorati alla mente di qualcuno, ma che tratti piuttosto gli effetti dell’instabilità che, nei diversi campi del vivere, caratterizza – non le persone – bensì i riferimenti sociali, etici, scientifici, economici, religiosi, che oggi non sono più solidi e affidabili come un tempo.

Naturalmente questa è la mia proposta, che non pretendo di affermare come quella universalmente condivisibile.

Ricordo e sottolineo nuovamente: non esiste una definizione di counselling sancita dalla legge.

  1. Il counselling come dispositivo

Proverò a definire meglio la struttura formale di “questo” counselling.

Per iniziare ad imbastirne la forma, mi sarà utile richiamare la nozione di dispositivo formulata da Michel Foucault a metà degli anni ’70, e poi ripresa da altri autorevoli filosofi come Gilles Delouze e Giorgio Agamben.

Che cos’è un dispositivo?

E’ un insieme di elementi di natura diversa, tra loro connessi, che in un momento storico determinato, e in un campo specifico, si impone come risposta adeguata per conseguire un obiettivo strategico, quando gli altri strumenti disponibili al momento non sono idonei a raggiungerlo.

Un dispositivo si distingue per gli “oggetti visibili” e per gli “enunciati formulabili” che lo caratterizzano e che – quindi – ci consentono di riconoscerlo.

Cosa intendiamo per oggetti visibili e per enunciati formulabili?

Intendiamo, letteralmente, tutto ciò che un osservatore esterno e neutrale potrebbe vedere ed ascoltare quando il dispositivo è in azione.

Nel counselling che sto cercando di mettere a fuoco, tra gli oggetti che vediamo, troviamo – per esempio – due persone che collaborano tra loro e che non cambiano atteggiamento nel tempo della relazione, che anche sotto il profilo logistico sono sullo stesso piano, che si alternano nella conversazione occupando in modo equivalente lo spazio delle parole. Tra gli enunciati, possiamo ascoltare, per esempio, la formulazione di strategie operative, ipotesi di azione, proposte e frasi dichiarative di obiettivi concreti, incroci di confutazioni su argomenti che non coinvolgono personalmente l’uno o l’altro interlocutore, ma che si riferiscono ad un oggetto esterno ad entrambi.

  1. L’algoritmo del counselling

Se quelli sopra accennati possono rappresentare alcuni tratti generali identificativi del nostro dispositivo, è ora indispensabile accedere ad una prospettiva ermeneutica che declini operativamente tali tratti.

L’interpretazione ci propone di riconoscere un algoritmo svincolato dalla lettura che può darne soggettivamente il singolo professionista, e che si pone come metodo, oggettivo e condivisibile in una prospettiva pragmatica, capace di tracciare il percorso tra un problema e la sua soluzione.

L’algoritmo, in specie, sarà caratterizzato dalla teoria di riferimento alla quale ciascun professionista si rifarà, ma – mi sembra – dovrà, quantomeno, consentire:

  • la costruzione di un progetto risolutivo del problema oggetto di lavoro;
  • la strutturazione di un contributo reciproco, non invasivo, da parte degli attori coinvolti;
  • di svincolare il processo da ogni ipotesi di carenze soggettive;
  • il controllo diretto del processo da parte degli attori coinvolti;
  • la coresponsabilizzazione degli attori coinvolti;
  • la più libera progettazione di opzioni risolutive
  • il monitoraggio, da parte di entrambi gli attori della relazione, dello stato d’avanzamento del lavoro;
  • la verifica oggettiva dei risultati.

Se consideriamo, come propongo di considerare, il lavoro di counselling come governato da un algoritmo, non ci resta che esplicitare qual è la formula tramite la quale l’algoritmo medesimo si declina.

Una variabile che accompagna tutto il processo di counselling attiene al clima della relazione.

Se ammettiamo, come io ritengo, che il rapporto tra counsellor e cliente sia paritario in termini di impegno e competenze, possiamo ricondurlo alla relazione tra due collaboratori che interagiscono in vista di un obiettivo comune. Sappiamo bene che una collaborazione professionale, per essere produttiva, deve essere favorita da un buon clima, direi da un clima funzionale alla produzione.

Ecco, quindi, che la formazione alle abilità di counselling comprenderà quegli insegnamenti, per esempio in tema di tecniche di comunicazione, che da sempre sono stati dispensati nei corsi di formazione per manager, professionisti delle relazioni industriali, formatori, insegnanti, educatori, operatori sociali, infermieri e, più recentemente, per medici, avvocati e consulenti fiscali, al fine di renderli più performanti nel perseguimento della loro specifica mission.

Se al compito istituzionale del professionista, come ho posto in precedenza, si aggiunge quello di collaborare alla strutturazione di scenari futuri, nell’ambito dei quali collocare le strategie possibili del cliente, e se ciò avviene per mezzo di un lavoro che attraversa le parole, il primo livello di intervento sul problema consisterà nel produrre e favorire la produzione di materiale di parola. Ciò potrà avvenire ricorrendo alle tecniche concepite per soddisfare tale scopo, che vengono battezzate, spesso in modo diverso, a seconda della teoria di riferimento: rispecchiamento; incoraggiamento; interrogazione, commento empatico; risposta in eco; istradamento; memorizzazione e confronto; condivisione del riferimento; ecc.

E’ possibile individuare, poi, un secondo livello di intervento. Mentre il professionista lavora sul clima, e si attiva per acquisire materiale di parola, egli comincia contemporaneamente ad elaborarlo, con il contributo del cliente, in funzione dell’obiettivo concordato con lui, che è divenuto – così – l’obiettivo comune ad entrambi.

Interverrà con le proprie parole, a fronte delle parole del cliente, concordando con lui una selezione di quelle, sue o dell’altro, che provvisoriamente risultano più funzionali al lavoro, cercando un’adeguata mediazione di significati, per poi organizzarli logicamente sul piano narrativo. In questa fase riscontriamo le tecniche più note del counselling: le diverse tipologie di riformulazione; la specificazione; la confrontazione; la spiegazione; l’illustrazione; la conferma; la cristallizzazione; l’informazione; la reductio ad absurdum; la scomposizione; l’organizzazione tematica; la sintesi; la restituzione del motivo narrativo; la determinazione; ecc.

C’è, infine, un terzo livello di intervento sul problema che si intreccia e sovrappone ai precedenti due e al lavoro sul clima, alternandosi ad essi in termini di priorità, che consiste nella discussione, insieme al cliente, riguardo a quali sono le azioni che avranno maggiore probabilità di condurlo verso l’obiettivo che si è posto. Questa linea operativa presuppone adeguate attitudini degli interlocutori a valutare le informazioni acquisite dal contesto socioculturale ed economico, e le determinazioni via via raggiunte nel corso del colloquio, anche alla luce dell’esperienza di ciascuno. Tali informazioni divengono, così, i dati di base per un calcolo probabilistico condiviso, logicamente fondato e verificato,  riguardo alla probabilità che le azioni ipotizzate avranno di accompagnare efficacemente il cliente verso il risultato auspicato.