Intervento del Direttore al convegno della S.I.Co.
Il Counselling Drammaturgico: una risposta alle mancate promesse della modernità
Fino ad un paio di decenni fa, si riteneva che tutte le componenti che influenzano il vivere quotidiano, a partire dalla componente umana, potessero essere, in qualche modo, prima o poi, facilmente governate dalle scienze: la medicina, la fisica, la matematica, la chimica, l’economia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e via dicendo. Pertanto risultava relativamente facile prendere decisioni dopo aver posto i giusti interrogativi per i quali era sempre possibile trovare uno specialista capace di dare risposta.
La scienza ha sempre basato la sua autorevolezza e credibilità sul presupposto che l’uomo fosse disponibile ad accettare il modello autoritario in virtù del quale le conoscenze sono imposte dall’alto verso il basso, da chi sa su chi non sa.
Più recentemente, tuttavia, sta prendendo corpo un fenomeno nuovo: l’autorevolezza della scienza sta venendo meno perché essa stessa si sta rivelando incerta, nella misura in cui il suo sviluppo esasperato la rivela talmente complessa da renderla – spesso – scarsamente fruibile anche da parte degli stessi specialisti che dovrebbero essere in grado di governarla. In tal modo essa si è indebolita come unico riferimento rassicurante per la soluzione di molti problemi concreti, quelli che angustiano la nostra vita quotidiana.
Chi un tempo era un suo fiducioso utilizzatore, oggi si sente solo di fronte alle alternative che la scienza oggettivamente propone, inducendolo a produrre “senza rete” i necessari giudizi di pratica, e cioè quelle – chiamiamole – verifiche operative indispensabili a ridurne l’incertezza. Lo specialista, colui che interpreta il ruolo della vestale della scienza, infatti, oggi ha dovuto spogliarsi definitivamente della responsabilità di decidere e si limita a rappresentare gli scenari delle proprie competenze: “la scienza ci dice questo, ma anche quest’altro; ci prospetta la soluzione A, ma anche la soluzione B: entrambe possono rispondere alle tue necessità. Resta a te la scelta”; “Lei può scegliere la cura farmacologica con questi, possibili, rischi e benefici, oppure l’intervento chirurgico con questi altri rischi e benefici: la decisione resta a lei”.
Questo ha portato alla conseguenza che, se fino agli anni settanta del secolo scorso la scienza poteva ancora contare su un pubblico che credeva in essa, che aveva fiducia nei responsi che formulava, oggi i suoi sforzi e i suoi progressi sono seguiti con diffidenza.
E la diffidenza si è diffusa sempre più radicalmente.
Dove finisce la fiducia nella scienza, là nasce la percezione del rischio delle decisioni, e tale percezione orienterà l’azione: “Quale cura sarà davvero efficace?”; “E’ consigliabile sostituire l’intervento chirurgico con un trattamento farmacologico?”. L’individuo è chiamato a farsi pieno carico della scelta delle proprie azioni.
Si tratterà di azioni che saranno – inevitabilmente – il prodotto di un giudizio di probabilità, e cioè di una valutazione delle possibili conseguenze dell’azione da compiere (considerata la mia età, considerata la mia aspettativa di vita, considerata la qualità della vita a cui aspiro, considerati i rischi di quel intervento chirurgico): “scelgo la cura farmacologica”. E di un giudizio di pratica con riferimento al ritorno operativo dell’azione compiuta (“la mia qualità della vita, con la cura farmacologica, si sta rivelando soddisfacente o non soddisfacente”). La scelta, insomma diventa un vestito su misura tagliato sulla corporatura della persona che adotta la decisione; un vestito che difficilmente potrà essere indossato elegantemente da un’altra persona.
Se ci pensiamo, la prospettiva di adottare un’azione orientata dal rischio, ribalta radicalmente la relazione tra passato, presente e futuro che finora ha distinto le decisioni basate sulla scienza.
La motivazione dell’agire presente non è più da identificare nel passato, perchè non può rappresentare un riferimento statistico attendibile, in quanto concepito in altri tempi, e soprattutto per soggetti diversi, che vivevano in contesti diversi. La motivazione dell’agire è, oggi, da identificare nel futuro. L’azione è orientata dal rischio, cioè da qualcosa di non accaduto, ma che potrebbe accadere nel futuro (l’inefficacia dei farmaci o un danno chirurgico o il successo della cura o dell’operazione). Nel futuro della persona che si accinge a decidere.
La capacità della scienza di controllare la natura non è l’unica promessa mancata della modernità. E’ venuto meno il garantismo sociale. Oggi è messa in discussione la grande promessa, faticosamente strutturata dopo due secoli di lotte sindacali, battaglie politiche, conquiste pagate a caro prezzo. Tutte le misure previste dallo Stato, nell’ambito del suo complesso contratto di reciprocità con il cittadino per la salvaguardia della salute, del diritto al lavoro, dei servizi essenziali, della previdenza sociale, del pensionamento, della vecchiaia, si stanno dissolvendo. Quando mai ci saremmo aspettati, prima di oggi, che un Papa intervenisse, in un suo pubblico discorso, per sostenere il diritto alla pensione, come avrebbero fatto un Luciano Lama o un Bruno Trentin all’apice della loro carriera sindacale.
Sempre al garantismo sociale potremmo ricondurre l’altra grave, attualissima, mancata promessa della modernità: l’incolumità individuale, nei confini dello Stato, a fronte dell’aggressione dello straniero. A partire dall’attentato alle Torri Gemelle, fino ai più recenti, tragici fatti di Parigi, si sta radicando il timore per la propria incolumità che non viene compensato dalle rassicurazioni dei governanti, periodicamente rinnovate, di massima vigilanza e di implacabili interventi finalizzati a “neutralizzare” il nemico.
Quanti di noi, venendo a sapere delle minacce dell’Isis che annuncia stragi a Roma, si sono detti “Porca miseria, io a fine mese devo andare a Roma”, e quanti hanno esorcizzato i propri timori con rituali cognitivi rassicuranti del tipo “statisticamente è improbabile che venga reiterata un’azione a così breve distanza di tempo”, oppure che “un convegno sul counselling non sarebbe una cassa di risonanza significativa per un attentato”.
Tra le mancate promesse della modernità si rivela, senza più censure, il venir meno di un’altra componente stabilizzante la nostra vita quotidiana, più intima rispetto alle precedenti, identificabile dell’equilibrio di coppia. Tra le problematiche che maturano tra i partner, la componente psicologico-individuale, finora considerata strategicamente prevalente, risulta costituire solo uno dei moduli da considerare, unitamente alle altre componenti, riconoscibili per esempio nella diseguaglianza sociale, nella professione consentita e nella retribuzione riconosciuta, nel ruolo genitoriale assegnato, nella normativa e nella politica sociale del territorio in cui si vive. Si tratta di conflitti che nell’era industriale sono spesso stati attenuati, nascosti, confusi da concezioni spesso strumentali del sentimento, e più specificamente dell’amore, nella coppia come nella famiglia, che veniva asservito ad una strutturazione economica e sociale che vedeva l’uomo attivo nel processo di produzione e la donna in posizione accessoria, di servizio, nella famiglia.
Tutto è divenuto opinabile, discutibile, traballante.
Il sociologo Ulrich Beck sintetizza bene la nostra condizione di oggi, evidenziando come la vita delle persone sia diventata progressivamente indipendente dalle prassi consolidate, dalle tradizioni e dai dogmi sociali, e sia stata riposta nelle mani di ciascuno aperta ad ogni possibile sviluppo e dipendente dalle decisioni di ciascuno, dando luogo ad un progressivo processo di individualizzazione della condizione umana.
Dunque, in questo contesto caratterizzato da un incertezza estrema se paragonato al passato recente, quali possono essere gli spazi professionali per il counsellor?
Un punto sul quale tutte le scuole di counselling concordano è costituito dal principio che il counselling si occupa di problemi che coinvolgono l’uomo.
Molte scuole di counselling focalizzano la loro attenzione sull’uomo, ipotizzando e promuovendo, in modi e a livelli diversi, il suo cambiamento.
Il counselling drammaturgico considera l’uomo nei termini di una prospettiva immodificabile da assumere come presupposto operativo per l’amministrazione di una situazione – problema che comprende l’uomo, unitamente ad altre componenti (circostanze ambientali, culturali e sociali; relazioni interpersonali; obiettivo da raggiungere; ostacoli al suo raggiungimento), in un contesto destabilizzato dalle mancate promesse della modernità, sulle quali per decenni l’uomo aveva modellato le sue proiezioni nel futuro. Il counsellor drammaturgico, preso atto – innanzitutto – della precarietà della scienza come riferimento operativo, attua un’operazione straordinaria, rispetto a quanto accade in altre professioni d’aiuto, ovvero rinnega radicalmente il ruolo d’interfaccia tra l’universo della scienza e quello degli accadimenti concreti, perché se la scienza non è più sufficientemente affidabile, ha forti probabilità di non esserlo più più neppure il professionista che se ne fa portavoce e interprete incontestabile.
Come abbiamo visto, l’inaffidabilità dei riferimenti decisionali apre la strada all’ incombenza del rischio e alla nozione di probabilità. In altre parole le scelte non si basano più sulle conseguenze ritenute certe di un’azione, quanto piuttosto sull’indice di probabilità che tali conseguenze si verifichino. D’altra parte, è – anche – evidente che la circostanza dell’agire in una condizione invasa dal rischio può sollecitare uno stato di impotenza e passività che apre spazi a nuove forme di aiuto professionale.
In buona sostanza, nella relazione d’aiuto si apre un bivio.
Una prima strada viene tradizionalmente percorsa da coloro che decidono di attenersi al metodo dell’iperspecializzazione, che si presuppone infallibile e inevitabile in quanto fondato sulla sperimentazione scientifica, pregressa e consolidata.
Sulla seconda strada si pongono gli operatori che optano per un metodo centrato sull’elaborazione del contesto, fondato sulle proiezioni probabilistiche e, quindi, caratterizzato dalla capacità di apprendere dagli errori pratici all’insegna del fallibilismo.
Se sul primo percorso si pongono gran parte della medicina, la psicologia e taluni orientamenti del counselling prossimi alla psicologia, che recepiscono, via via, le più recenti scoperte scientifiche, ciascuna nel proprio ambito, e producono indicazioni, spesso alternative e incomparabili, costringendo chi deve vivere la vita pratica ad assumere da solo decisioni importanti; sul secondo percorso si colloca il counselling drammaturgico che considera i diversi e alternativi responsi della scienza, la condizione dell’uomo, e i suoi obiettivi, come variabili, componenti la situazione-problema, tendenzialmente in evoluzione, e quindi soggette ad essere riconsiderate, nel tempo, in funzione di tutto il contesto che esse contribuiscono a modificare.
Un problema, quasi sempre, può essere trattato da diverse prospettive.
Se la psicologia si pone l’obiettivo di cambiare l’uomo, di intervenire – in un modo o nell’altro – sulla psiche della persona, il counselling drammaturgico è costituito da un insieme di tecniche che operano prevalentemente nell’ambito di discipline linguistiche; se la psicologia presuppone un setting costituito – come minimo – da un professionista e da un paziente o cliente, il counselling drammaturgico non presuppone l’esistenza di soggetti, bensì quella di personaggi che sorgono dall’interazione narrativa di due coautori di una sceneggiatura, e i personaggi non possono rimandare ad un loro status extranarrativo. I soggetti a cui fa riferimento la psicologia sono soggetti psichici, i soggetti a cui fa riferimento il counselling drammaturgico sono soggetti testuali. La psicologia si fonda su teorie della mente e sulle ipotesi ad esse collegate di un rapporto mente-cervello, il counselling drammaturgico non è interessato a presupporre o formulare nessuna particolare teoria della mente. La psicologia appartiene alla cultura orale, il counselling drammaturgico appartiene alla cultura scritturale.
Il counsellor drammaturgico, interagendo con il cliente, rinuncia ad approfondirne la conoscenza, o meglio non si pone l’obiettivo primario di conoscerlo, partendo dal presupposto che i tempi e gli obiettivi del suo intervento rendono antieconomica, e sostanzialmente improduttiva, tale conoscenza, che implicherebbe il rilevare e il mettere in relazione tra loro un’imponente quantità di dati. Troppi dati rispetto al tempo a disposizione.
Nello stesso modo, e per gli stessi motivi, il counsellor drammaturgico rinuncia a conoscere con precisione la natura dell’ambiente in cui la persona si muove e le caratteristiche delle persone con le quali essa è in relazione.
Il counsellor infatti, si pone a fianco del cliente e, assumendo il ruolo di coautore, fa carico del problema del protagonista della vicenda, perché il problema degli autori è proprio quello di condurre il personaggio che hanno creato verso l’epilogo programmato. Il counsellor condivide con il cliente l’impegno a trovare le azioni più funzionali affinché il loro personaggio giunga nel modo più efficace possibile alla meta finale.
La situazione – problema portata dal cliente sarà focalizzata distinguendo le sue componenti, e le sue componenti sono quelle che caratterizzano ogni struttura narrativa, e cioè almeno: un soggetto portatore del problema, con determinate qualità; circostanze che caratterizzano il suo agire e quello delle altre persone con le quali entra in relazione; obiettivi da raggiungere e ostacoli che si frappongono al loro raggiungimento; volontà di superare tali ostacoli.
Tutte queste componenti insieme contribuiscono a strutturare il problema.
Tutto questo “è” il problema.
Il cliente e il counsellor, nelle veste di coautori della storia diventano, dunque, i portatori del problema, che consiste nell’accompagnare il personaggio verso la sua meta, nel modo più adeguato.
Entrambi si propongono il compito di condurre un personaggio da un prologo ad un epilogo chiaramente definiti, utilizzando come vettore una narrazione costruita insieme.
Quindi cosa succede? Succede che il counsellor deve personalmente conformarsi al problema del cliente, che diventa il problema di un personaggio.
Non si tratta più, quindi, semplicemente e solo di “esercitare” una professione, ma piuttosto di adeguarsi, in quanto persona caratterizzata emotivamente e cognitivamente, alla situazione-problema di cui si sta trattando.
Questo passaggio del ragionamento è strategico perché ci rinvia immediatamente alle teorie e alle tecniche di riferimento.
Se il professionista utilizza una tecnica di matrice psicologica, l’oggetto del suo intervento non può che essere il soggetto psicologico (individuo, coppia o gruppo). E il professionista non potrà che essere uno psicologo. Se il professionista è un narratore egli richiamerà tutta la propria realtà nel percorso di strutturazione della storia.
Tale realtà comprenderà un insieme di stati e nozioni: moti dell’animo, riferimenti teorici, metodi e tecniche, esperienze personali, abilità pratiche, che ad ogni incontro dovrà impegnarsi a selezionare, in funzione della situazione che si troverà ad amministrare, per cercare di raggiungere specifici obiettivi insieme al cliente.
Per questo motivo è importante che i riferimenti tecnici e metodologici del counsellor non siano solo psicologici ma, come nel nostro caso, anche sociologici, filosofici, linguistici, antropologici, previsionali.
Entrando nella situazione-problema del cliente, il counsellor drammaturgico diventa “strumento al servizio” del cliente, o meglio del personaggio che lo rappresenta.
La funzione strumentale del counsellor non è riferita solo alla sua competenza, bensì alla persona nel suo complesso, con i suoi limiti e i suoi punti di forza caratteriali che non devono essere, per principio, più stabili, equilibrati, energici o creativi di quelli del cliente.
Nella relazione di counselling, infatti, non si pongono problemi di patologie o squilibri di tipo emotivo che, in qualche modo, vanno compensati anche attraverso la proposta di un modello alternativo di soggetto “equilibrato”.
Qui si tratta esclusivamente di contribuire alla soluzione di un problema narrativo.
E’ la soluzione del problema che valida il successo dell’intervento.