Il counselling come risorsa

di Rodolfo Sabbadini

Centro Studi Erickson: La scuola del presente tra educazione e didattica

Salerno 1 – 3 Dicembre 2016

Le origini

Ai suoi inizi, in America, negli anni Cinquanta, dietro la spinta di Carl Rogers e Rollo May, il counselling costituiva quella che veniva chiamata the third way, la terza via, la via umanistica, che cercava di incunearsi tra la psichiatria e la psicoanalisi, occupando gli spazi lasciati vuoti dalle due scienze allora forti. A caratterizzare il counselling era una visione non causale delle vicende umane, per cui, secondo la psicoanalisi e la psichiatria, ogni difficoltà era potenzialmente sintomo di una malattia, ma l’idea che ad ogni persona accade di dibattersi in problemi che derivano da diverse, possibili, situazioni esistenziali concrete e complesse. Vent’anni dopo, nel suo approdo in Inghilterra verso il 1970, e poi in Francia e in Italia verso la fine degli anni Ottanta, il counselling conserva in parte, e in parte perde, qualcuna delle sue proprietà originali, compresa a volte la «l» del termine, che diventa, nella mani di alcuni, “counseling”. Successivamente numerosi fraintendimenti riguardo alla natura del counselling hanno condotto ad una grave confusione, logica e giuridica, ma soprattutto alla trasfigurazione dell’identità originaria centrata sul concetto di cliente come persona situata nel grande mondo con problemi dell’esistenza da risolvere.

Counsellor.
Il termine counsellor sta a indicare il professionista che, lavorando sulla relazione, utilizza metodi, tecniche e strumenti utili ad aiutare le persone a gestire e risolvere problemi identificando, attualizzando e utilizzando le loro risorse personali, evitando di porsi nella posizione di superiorità dello specialista. Il counsellor pone, a tutti gli effetti, il cliente sul suo stesso piano, e collabora con lui per strutturare, coordinare e finalizzare conoscenze e competenze che già gli appartengono, ricorrendo a procedure che il cliente medesimo, in una condizione di maggiore serenità, obiettività, forza fisica o psicologica, avrebbe potuto adottare autonomamente.

Possiamo dire, dunque, che Il counsellor considera il suo cliente un presupposto operativo, una condizione di partenza, caratterizzata da limiti e risorse dalle quali egli non può prescindere nella gestione del problema che gli viene portato.

Per poter rendere evidente l’apporto estremamente significativo del counselling nell’attuale contesto socio-economico, è necessario premettere alcune considerazioni che riguardano proprio questo contesto.

Il contesto

Innanzitutto dobbiamo prendere atto delle incertezze nelle quali ci dibattiamo oggi, a causa del venir meno di alcune importanti promesse della modernità. Prima fra tutte, la promessa che la scienza sarebbe riuscita a controllare la natura, ma anche che il garantismo e la sicurezza sociale avrebbero sostenuto tutti i cittadini almeno nei Paesi occidentali, o ancora che si sarebbe potuta raggiungere una forma di pace mondiale.

A seguito di tali disconferme epocali, sono entrate in crisi anche le istituzioni tradizionalmente delegate ad amministrare le dinamiche sociali legate a quelle specifiche aspettative; mi riferisco a istituzioni come i partiti politici, i sindacati, le strutture aggregative religiose, gli enti previdenziali, ecc.. Esse si basavano e sostenevano modelli di riferimento fondanti quali erano, per esempio, una famiglia e una coppia stabili, dove i ruoli dell’uomo e della donna erano strutturati e sostanzialmente rigidi;  una professione garantita nel tempo e radicata sul territorio; un’ economia stabile, assicurata da sistemi di controllo nazionali ed internazionali assolutamente affidabili.

Cosa succede ora?

Succede che ci accorgiamo che la società contemporanea si trova già al di là di quella società industriale che cerca ancora di conservarsi nelle istituzioni, come quelle appena citate, che stanno rivelandosi vuote e obsolete.

La società in cui viviamo è caratterizzata da fenomeni a volte straordinariamente nuovi, altre volte già preesistenti, ma esaltati dal nuovo contesto sociale:

  • le famiglie faticano a costituirsi per problemi economici e in alta percentuale si dissolvono dopo pochi anni;
  • il lavoro è precario e – spesso – ricercato all’estero;
  • le ideologie sono venute meno e l’aggregazione politica si basa su movimenti orientati da obiettivi pratici e, prevalentemente, espressione di paure. Della paura del diverso; della paura di perdere il lavoro o di non trovarlo domani, della paura della povertà;
  • la società e la religione diventano – se non proprio – aperte, inevitabilmente orientate a rivedere vecchie posizioni che fino a qualche anno fa rappresentavano veri e propri tabu. Pensiamo alle unioni civili e al diritto per le coppie non tradizionali di adottare un figlio; recentissimamente, al tema dell’aborto per la Chiesa Cattolica;
  • le relazioni di coppia si stanno rivoluzionando. I legami sono sempre più allargati e meno esclusivi. I social network rinforzano e contribuiscono a diffondere tipologie di legami che esistevano, ma rappresentavano delle eccezioni, come le relazioni tra demisessuali, e cioè partner che fondano la relazione sul sentimento e la condivisione intellettuale escludendo, o lasciando sullo sfondo la sessualità;
  • ancora, i social network – come evidenzia Umberto Galimberti – favoriscono la diffusione di un altro fenomeno epocale, quello per cui l’homo sapiens, capace di elaborare un pensiero analitico e critico, viene progressivamente soppiantato dall’homo videns, accanito fruitore di immagini e di notizie approssimative, e spesso non verificabili, ma povero di motivazione a capire;
  • le nuove forme di acquisto on line, che stanno interessando beni di alto costo come le automobili, se da un lato comportano economie del 30% o del 40% sull’acquisto tradizionale, dall’altro ci sottraggono al rapporto diretto con l’oggetto e con il suo venditore, e ci chiedono una complessa dimestichezza con il mezzo informatico e con il sistema di garanzie di pagamento che sottendono queste tipologie di acquisto.
  • più in generale, si moltiplicano gli adempimenti di legge on line, e così anche le username e le password, da aggiornare periodicamente, per accedere ai siti più disparati.

E’ evidente che le istituzioni che prima ho citato non sono più adeguate ad amministrare i nuovi fenomeni. E mano mano che tali istituzioni vengono meno alle loro funzioni, i compiti che esse svolgevano ricadono sugli individui.

Proprio dalla necessità di gestire autonomamente queste, piccole e grandi, insicurezze epocali, scaturiscono nuovi tipi di domande nel campo, per esempio, dell’educazione e della politica. In questa società che U.Beck ha battezzato “società del rischio”, un nuovo modo di rapportarsi al dubbio e all’insicurezza diventa una competenza strategica, e la formazione alle abilità che tale competenza implica dovrebbe diventare uno dei campi di intervento principali delle istituzioni pedagogiche.

Zigmunt Bauman (2015), senz’altro uno dei più autorevoli sociologi contemporanei, descrive così la condizione dell’uomo di oggi: “Ognuno di noi, entità singola per volere del destino, sembra essere stato abbandonato alle proprie risorse personali, penosamente inadeguate alle sfide gigantesche che ormai fronteggiamo”. Si tratta del fenomeno altrimenti definito “di individualizzazione”, per cui “la vita delle persone diventa indipendente dalle prassi consolidate, dalle tradizioni o dai dogmi sociali, e viene messa nelle loro mani aperta e dipendente dalle loro decisioni”.

Individualizzazione delle situazioni e dei processi di vita significa, dunque, autonomia nella definizione della propria mappa esistenziale; i percorsi convenzionali tracciati dalla tradizione e dalle prassi sociali consolidate lasciano il posto ad una biografia auto-prodotta.

Ci troviamo, tecnicamente soli, davanti a decisioni importanti, che possono riguardare, per esempio:

  • l’istruzione (può ancora servire una laurea, oppure è meglio andar subito a “cercare fortuna” all’estero, contando su un’idea nuova e sull’appoggio di qualche amico che si è già fatto una posizione lontano da casa?);
  • la professione (continuo a sperare che la mia professionalità sia finalmente riconosciuta, oppure mi adatto a fare qualsiasi cosa per portare a casa qualche soldo e ritagliarmi un minimo di sicurezza sociale?);
  • il luogo di residenza (privilegio il rapporto con la famiglia e con il partner, magari godendo del calore dell’ambiente che mi ha protetto finora, oppure privilegio la carriera e vado dove il successo mi chiama?);
  • la persona da sposare (la mia scelta privilegia l’”amore”, sperando che questo termine abbia ancora un senso condiviso, o ricerco un partner che mi garantisca struttura, organizzazione, serenità e una ragionevole libertà d’azione in un contesto così turbolento?);
  • il numero di bambini da mettere al mondo (se il futuro è opaco come sempre più spesso si sta manifestando, ha un senso mettere al mondo dei figli?);
  • la programmazione economica del mio futuro (ha un senso stipulare un’assicurazione privata per avere tra trent’anni una pensione, con il rischio che i quattrini investiti si volatilizzino alla prossima, crisi economica mondiale?).

Tutte queste decisioni, con quelle secondarie che esse implicano, non solo possono, ma devono essere ponderate attentamente ed adottate individualmente con esclusivo riferimento alla propria contingente condizione esistenziale.

Nella società individualizzata ogni persona deve imparare, pena una condizione di svantaggio permanente, a concepire se stessa come centro dell’azione, come “ufficio-pianificazione” del proprio progetto di vita.

Ciò che viene richiesto è un dinamico modello di azione per la vita quotidiana, che abbia il suo centro nella persona e che le attribuisca e le apra opportunità di azione, consentendole di lavorare consapevolmente sulle variabili decisionali e di progettazione della propria vita.

Questa esigenza molto concreta e quotidiana trasforma il rapporto tra individuo e scienza.

Nella realtà attuale la scienza comincia a perdere il monopolio sociale della verità. Il ricorso ai risultati scientifici, che nella società industriale ha svolto una funzione inattaccabile, vincolante, nella rappresentazione della verità, diventa – per certi versi – sempre più necessario, ma nello stesso tempo – e questa è la novità epocale – sempre meno sufficiente.

Dove finisce la certezza apodittica della scienza, là nasce la percezione del rischio nella scelte, e sarà proprio tale percezione ad orientare l’azione.

Per esempio, prendiamo come riferimento la medicina: ci può capitare, di essere posti di fronte all’alternativa “informata” tra un intervento chirurgico e un trattamento farmacologico. Una volta resi edotti di pro e contro dell’una e dell’altra opzione, cosa scegliere? Quale sarà la cura davvero efficace? È consigliabile sostituire l’intervento chirurgico con un trattamento farmacologico?

L’individuo è chiamato a farsi pieno carico della scelta delle proprie azioni.

Si tratterà di azioni che saranno – inevitabilmente – attivate alla luce di una valutazione delle probabilità di successo che potrebbero avere e – subito dopo – verificate da un giudizio di pratica, e cioè dall’accertamento della loro effettiva efficacia e idoneità a produrre le conseguenze auspicate.

Alla luce di ciò, ci rendiamo conto che l’azione è orientata dal rischio, cioè da qualcosa di non accaduto, ma che potrebbe accadere (l’inefficacia del farmaco o un danno chirurgico).

Dal momento che le idee, concepite come regole capaci di risolvere problemi (come sono le prescrizioni della scienza medica), devono venire quantomeno integrate da un’attività di produzione di idee finalizzate a assumere decisioni sempre nuove, la qualità del pensiero si modifica. L’idea viene ora considerata non più come una regola fonte di certezze, ma come una linea guida continuamente soggetta al cambiamento, in funzione degli accadimenti che – via via – si verificano.

Se molti capisaldi, come la scienza, la sicurezza sociale, le relazioni famigliari e di coppia, che rappresentavano un punto fermo nella valutazione delle situazioni finalizzate a scelte importanti, vengono meno, si  apre la strada all’incombenza del rischio e alla nozione di probabilità. In altre parole le scelte non si basano più sulle conseguenze programmabili di un’azione, quanto piuttosto sull’indice di probabilità che tali conseguenze si verifichino.

Il ruolo del counselling

La necessità di agire in una condizione di rischio dà luogo ad una tipologia di disorientamento, oggettivamente riconducibile a variabili decisionali complesse, che apre spazi a nuove forme di intervento professionale.

Nella relazione d’aiuto si prospetta un bivio. Un percorso viene tradizionalmente tracciato dal metodo scientifico, tendenzialmente infallibile, in quanto fondato su una sperimentazione pregressa e consolidata. Un altro percorso caratterizza il metodo fondato su quello che il pragmatismo americano ha battezzato “giudizio di pratica”, e quindi anche sulla capacità di apprendere dagli errori, all’insegna del fallibilismo.

In virtù di questa seconda prospettiva, il fallimento di un’azione non viene considerato un insuccesso, ma piuttosto l’indicatore che ci induce a scartare una delle ipotesi operative che, prima di sperimentarla, ci sembrava idonea ai nostri scopi.

I metodi che ho appena segnalato propongono una scelta, o almeno un affiancamento, tra il confidare nelle certezze, talvolta alternative tra loro, validate dalla scienza e l’affidarsi ad indicatori di probabile efficacia, molto meno garantisti in termini di risultati, ma  più facilmente amministrabili da ciascuno nell’ambito della propria realtà.

Se sul primo percorso si pone, per esempio, la medicina dominante, che recepisce, via via, le più recenti scoperte scientifiche, producendo indicazioni,  se non proprio contraddittorie, spesso alternative e incomparabili per l’uomo comune, costringendo chi deve vivere la vita pratica ad assumere da solo decisioni importanti, sul secondo percorso si colloca il counselling che – affiancandosi molto concretamente ed operativamente alla persona che chiede aiuto –  considera i diversi e alternativi responsi della scienza, la condizione dell’uomo, i suoi obiettivi, e ogni altra componente della realtà sociale, come elementi della situazione-problema.

Naturalmente un percorso che valorizza la probabilità non esclude quello iperspecialistico, ed è necessario che le professioni operanti sui due versanti si riconoscano e collaborino. Il limite dell’incertezza pratica della scienza può venir compensata dalla creazione di specialisti nell’amministrazione del rischio e delle probabilità quali possiamo considerare i counsellor.

L’approccio fondato sulla pratica e sul probabilismo è orientato esclusivamente dall’obiettivo di giungere alla soluzione del problema, senza produrre alcun effetto collaterale sulla realtà preesistente.
Quindi, come opera il counsellor?

ll counsellor deve personalmente conformarsi al problema del cliente. Non si tratta più, quindi, semplicemente e solo di “esercitare” una professione, ma piuttosto di adeguarsi, in quanto persona caratterizzata emotivamente e cognitivamente, alla situazione-problema di cui si sta trattando. Il counsellor mette a disposizione della soluzione del problema tutta la propria  realtà soggettiva, costituita da un insieme di stati e nozioni: moti dell’animo, riferimenti teorici, metodi e tecniche, esperienze personali, abilità pratiche,  che ad ogni incontro si impegnerà a selezionare, per cercare di raggiungere specifici obiettivi insieme al cliente.

Per questo motivo è importante che i riferimenti tecnici e metodologici del counsellor siano idonei a produrre prospettive di osservazione diverse, attingendo da vari campi del sapere come la sociologia, la filosofia, la linguistica, l’antropologia, la psicologia, la scienza previsionale. Entrando nella situazione-problema del cliente, il counsellor diventa “strumento al servizio” del cliente, funzionale a sviluppare una sinergia proficua con le sue forze.

Il Counselling Drammaturgico

Nel counselling drammaturgico, il problema portato dal cliente viene convenzionalmente posto in capo al personaggio di una storia. Una storia il cui prologo consiste in una condizione infelice, sovrapponibile a quella del cliente, nella quale, inizialmente, viene collocato il protagonista, e il cui epilogo corrisponde alla situazione felice o meno infelice alla quale il cliente auspica di approdare, e alla quale si condurrà il personaggio che inizialmente lo rappresentava.

Il counsellor e il cliente dovranno negoziare le azioni da attribuire al personaggio per accompagnarlo  dal prologo all’epilogo. Il counsellor, si pone al fianco del cliente e, assumendo il ruolo di coautore del testo, fa proprio il problema del protagonista della storia, perché il problema degli autori è proprio quello di condurre il personaggio che hanno creato verso l’epilogo programmato. Al termine della costruzione della storia, l’intervento del counsellor, se necessario, potrà concludersi nel ruolo di regista, e cioè in quello di colui che aiuta l’attore-cliente ad interpretare, con tecniche recitative, il personaggio che insieme hanno costruito.

La situazione-problema portata dal cliente sarà focalizzata distinguendo le sue componenti, e le sue componenti sono quelle che caratterizzano ogni struttura narrativa, e cioè almeno: un soggetto portatore di un problema, con determinate caratteristiche; circostanze che caratterizzano il suo agire e quello delle altre persone con le quali entra in relazione; obiettivi da raggiungere e ostacoli che si frappongono al loro raggiungimento.

Tutte queste componenti insieme contribuiscono a strutturare il problema. Tutto questo, nulla di più, nulla di meno, nulla di diverso “costituisce” il problema.

A rinforzo di questo principio operativo, il counselling drammaturgico privilegia il codice della scrittura che lo differenzia da altri metodi applicati al counselling che favoriscono, viceversa, il codice orale.

Il confronto con la parola scritta comporta un processo di riflessione, di verifica continua, e di costante riassestamento tra mondo interno e mondo esterno di chi parla e di chi ascolta.

La scrittura comporta la traduzione del pensiero in un ragionamento strutturato.

Attraverso la lettura dello scritto, il cliente acquisisce una nuova prospettiva per la lettura di un mondo ridisegnato, e potrà essere in grado di rivedere se stesso alla luce delle possibilità che le nuove trame narrative, gli hanno rivelato.

Grazie alle necessarie tecniche, il testo orale si converte in un testo scritto logico e trasparente, in una storia compiuta.

Il testo creato rappresenta un oggetto rispetto al quale sia il counsellor che il cliente si confrontano; la parola trascritta cessa di essere proprietà di chi l’ha formulata e diventa un riferimento comune per i suoi autori; e, in quanto riferimento comune, il suo significato dovrà essere necessariamente concordato tra loro.

Il testo si annuncerà, quindi, inizialmente, nella forma magmatica, indifferenziata, delle parole scambiate durante una conversazione che risponde ai criteri del codice orale, e che comprende tutto ciò che gli interlocutori si dicono, per divenire, dopo varie elaborazioni tecniche che consentono la sua conversione nel codice della scrittura, una vera e propria sceneggiatura.

Se ci pensiamo, l’obiettivo che ci poniamo come counsellor, consiste essenzialmente nel definire alcune linee guida che possano essere utili al nostro cliente come riferimento nel suo futuro.

Detto ciò, possiamo affermare  che il nostro obiettivo è esattamente quello di utilizzare parole per strutturare concetti che, per comodità e per facilitarne la trasferibilità e l’assimilazione, decidiamo di articolare in narrazioni. Quindi, le nostre narrazioni, le nostre storie non sono altro che espedienti per rendere accessibile al cliente quel futuro che, insieme, abbiamo cercato di rendere il più rispondente possibile alle sue aspirazioni.

Per concludere, chiedendo in prestito le parole che Giampaolo Lai, uno dei Maestri della psicoanalisi italiana, ideatore del Conversazionalismo, ha scritto nella prefazione ad uno dei miei libri più recenti, il Manuale di Counselling (2009), possiamo dire che, se l’ingenua fiducia nel prossimo è ogni giorno usurpata da clamorose manifestazioni di avidità, incompetenza, malvagità e se da ogni parte ci sentiamo spinti a prendere decisioni dettate dall’improvvisazione, che sfociano spesso nella fuga della rabbia e dell’indifferenza, il counselling, con la sua pacata apertura verso il mondo possibile del ragionamento argomentato e paziente, ci conforta nella nostra ostinata scommessa sul mondo attuale di quei professionisti della parola, pochi o tanti, che cercano nell’interlocutore il soggetto da far emergere per una convivenza tra soggetti e non l’oggetto da addomesticare per dominarlo.

 

Riferimenti bibliografici

Bauman Z., Bordoni C. (2015), Stato di crisi, Einaudi, Torino.

Beck U. (2013), La Società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma.

Dewey J. (1900-1916), Logica sperimentale. Teoria naturalistica della conoscenza e del pensiero,

Quolibet, Macerata 2008.

Galimberti U. (2009), I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano.

Lai G. (2009), Prefazione a  Sabbadini R. Manuale di counselling, Franco Angeli, Milano, 2009.

Sabbadini R. (2012), Il Metodo Drammaturgico nella relazione di counselling, Franco Angeli,

Milano.