Sentenza del TAR Lazio

Sentenza del TAR Lazio: non ci sono motivi per gioire o dolersi nè per gli psicologi nè per i counsellor

La recente sentenza, con la quale il TAR Lazio ha accolto il ricorso del Consiglio Nazionale degli Psicologi contro il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero della Salute, a seguito dell’inserimento di una delle associazioni nazionali di counselling (l’Assocounseling) nell’elenco delle associazioni professionali non regolamentate ex l. n. 4/2013, ha suscitato un certo scalpore.
Si direbbe che la comunità degli psicologi abbia prevalentemente gioito della sentenza, mentre i counsellor si siano sentiti ingiustamente penalizzati.
Entrambe le reazioni paiono piuttosto fuori luogo.
In via preliminare va puntualizzato che il provvedimento riguarda sotto il profilo della forma e del merito la specifica domanda di un’associazione, e quindi le procedure e i contenuti di quella domanda.
Come vedremo, in particolare, l’attenzione dei giudici si è concentrata sulla definizione che Assocounseling ha fornito della professione di counsellor. Pertanto, la sentenza non può essere intesa come “contro” il counselling e i counsellor, quanto piuttosto contro una specifica “configurazione” del counselling.
Cionondimeno, come vedremo, le argomentazioni di diritto paiono male impostate.
Sgombriamo subito il campo dalle motivazioni di forma, che non sono direttamente finalizzate a mettere in discussione la professione.
Sotto il profilo della forma, i giudici hanno ritenuto che “Il Ministero dello Sviluppo … pur soffermandosi approfonditamente su taluni aspetti della domanda di inserimento … ha omesso una approfondita istruttoria in ordine alla tipologia di attività svolta, in ordine alla quale ha ritenuto sufficiente la descrizione della stessa fornita dal legale rappresentante…”
In pratica, i giudici imputano ai funzionari ministeriali una certa superficialità in fase di istruttoria.
Ma come vedremo, tale superficialità ha avuto effetti non irrilevanti anche nelle valutazioni di merito.
Come si diceva, i giudici prendono le mosse (e non avrebbero potuto fare diversamente) dalla definizione di counselling che l’associazione ha ritenuto di inserire nella domanda, e cioè la seguente:
“attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità della vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Il counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. E’ un intervento che utilizza varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni. Il counseling può essere erogato in vari ambiti quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale”.
In prima battuta i giudici osservano correttamente che tale definizione è “talmente generica da potere comprendere una vasta gamma di interventi sulla persona, sfuggendo ad una precisa identificazione dell’ambito in cui la stessa viene a sovrapporsi all’attività di psicologo”. E da qui la contestazione di superficialità dell’istruttoria.
Tuttavia il baricentro della motivazione della sentenza si sposta sul parere del Consiglio Superiore della Sanità del 13 luglio 2011 (anch’esso impugnato con il medesimo ricorso dal CNOP) sul quale il Ministero dello Sviluppo si è basato per definire l’area di intervento dei counsellor e, di conseguenza, accogliere la domanda dell’associazione.
Secondo tale parere l’ambito di attività del counselling è quello “di aiuto alla soluzione di problemi che possono causare lieve disagio psichico, come le indecisioni sull’orientamento professionale, contrasti lavorativi, cambio carriere ecc. (…) fuori da contesti clinici”.
Da tale parere i giudici traggono un’argomentazione logica (deduzione), palesemente incongruente con la premessa (il parere), scrivendo che “da tale delimitazione dell’ambito di attività del counseling si ricava che lo stesso interviene sul “disagio psichico” fuori da contesti clinici, purché si tratti di disagio lieve”.
Prendendo le mosse da tale, erronea, argomentazione logica, i giudici contestano la facoltà dei counsellor di intervenire su ogni forma di disagio psichico e, quindi, annulla anche il parere del Consiglio Superiore della Sanità.
E’ di tutta evidenza, viceversa, che svolgere una professione d’aiuto alla soluzione di problemi che possono causare un lieve disagio psichico, non significa affatto intervenire “sul” disagio psichico.
Il counsellor, come l’avvocato, il commercialista, l’assistente sociale, il formatore, ecc. intervengono su problemi che possono causare un lieve disagio psichico, non intervengono sul disagio psichico. E per far ciò utilizzano tecniche di intervento che nulla hanno a che fare con la psicologia e le tecniche psicologiche.
Il fraintendimento dei giudici appare ancor più evidente quando richiamano come modello di riferimento per la definizione del counselling quella proposta dall’International Association for Counselling che rimanda a “tecniche per l’orientamento positivo che possono facilitare la relazione e la comunicazione con gli altri migliorando la vita”. I problemi della relazione e della comunicazione, nonché una vita insoddisfacente non possono, forse, causare un lieve disagio psichico?
Tornando agli aspetti formali, viceversa, i giudici hanno ben ragione di lamentare la superficialità dell’istruttoria del Ministero. Solo una verifica sulle tecniche di intervento utilizzate dai counsellor afferenti ad Assocounselling per migliorare la qualità della vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione; per esplorare le sue difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e per rinforzare la sua capacità di scelta o di cambiamento, avrebbe potuto evidenziare se si tratta di interventi psicologici o meno, e cioè centrati sulla psiche del cliente o su fattori esterni, con positive, eventuali ricadute sulla psiche del cliente medesimo.
In conclusione, la sentenza del TAR nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già ribadito dalla magistratura (prevalentemente penale) fino ad oggi. E cioè che :
1) Il counselling è una professione non normata, che può essere esercitata ai sensi della Legge n. 4/2013;
2) Nell’ambito del counselling non possono essere esperite tecniche riconducibili a professioni normate (quali il medico, lo psicologo o lo psicoterapeuta), neppure da professionisti che tali tecniche sono abilitati ad esercitare nell’ambito delle loro specifiche professioni (medicina, psicologia, psicoterapia);
3) Il counselling non è una professione sanitaria e non può intervenire direttamente su alcuna forma di disagio psichico, neppure lieve, neppure al di fuori del contesto clinico;
4) Il counsellor può collaborare con il cliente per la soluzione di ogni problema che non sia direttamente riconducibile alla psiche del cliente.