Considerazioni a margine della sentenza del Consiglio di Stato

di Rodolfo Sabbadini

Il 22 Gennaio 2019 è stata pubblicata la sentenza del Consiglio di Stato con la quale l‘organo supremo di giurisdizione amministrativa ha annullatola sentenza di primo grado del Tribunale amministrativo per il Lazio, Sez. III-ter, 17 novembre 2015 n. 13020.

Di tale sentenza si è già ampiamente parlato, nei giorni scorsi, sui social network e nei siti web degli organismi che sono stati parti della vertenza giudiziaria.

Prima di passare ad alcune riflessioni sull’orientamento giurisprudenziale evidenziato dalla sentenza, ricordo – sinteticamente, per le parti che ci interessano più direttamente – la decisione del Consiglio (le sottolineature sono mie):

  • A giudizio del Consiglio di Stato, il TAR Lazio, ha erroneamente ritenutoche il MISE (Ministero dello sviluppo economico), al momento di decidere se inserire Assocounseling nell’elenco delle associazioni professionali non regolamentate ai sensi della Legge n. 4/23013, “avrebbe dovuto svolgere una istruttoria maggiormente approfondita, fino a doversi sincerare se, effettivamente e concretamente, sotto ogni sfaccettatura della caleidoscopica attività di counseling (per come emerge dalla lettura degli atti prodotti nei due gradi di giudizio), si potesse assolutamente escludere l’emersione di tratti di sovrapposizione tra l’attività svolte dal counselor e quella dispiegata dallo psicologo professionista, laddove tale compito non era ad esso attribuito dal legislatore.”;

Non spetta al giudice amministrativo  il compito di “delimitare i confini tra l’attività di counseling e l’attività di psicologo professionale né individuare in quali ambiti possano manifestarsi sovrapposizione, trattandosi di questioni rimesse all’esercizio del potere sanzionatorio da parte delle Autorità competenti nei confronti dei singoli professionisti iscritti ad Assocounseling che dovessero trasgredire le previsioni contenute nelle normative di settore, indipendentemente dalla intervenuta iscrizione dell’associazione di riferimento nell’ elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2013”

  • Inoltre, il TAR non è legittimato a sindacareun contenuto del parere reso dal Ministero della salute, di evidente natura tecnico scientifica” circa “l’incerto confine tra l’attività di counseling e quella di psicologo professionista, giungendo a dichiararne la illegittimità ed a sancire l’annullamento”

Con quanto specificato nel primo punto, si ribadisce il principio – peraltro ovvio – che ogni singolo professionista, iscritto o non iscritto ad una associazione, può essere chiamato individualmente, se ne ricorrono i presupposti, a rispondere del reato di esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato (art. 348 c.p.); nel nostro caso, ciò si verifica se chi non è psicologo ricorre all’uso  degli  strumenti conoscitivi e di intervento  per  la  prevenzione,  la  diagnosi,  le attivita’ di abilitazione-riabilitazione  e  di  sostegno  in  ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità, comprese le attività  di  sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito (art. 1 legge n. 56/89).

A tal proposito, una novità strettamente connessa alla struttura normativa della legge n. 4/2013 è rappresentata dall’esplicito richiamo delle rilevanti responsabilità in capo ai rappresentanti legali delle associazioni registrate nell’elenco del MISE, con particolare riferimento al combinato disposto del comma 7 dell’art. 2 e del cpv. lett. c) dell’art. 7 della legge n. 4/2013.

Dopo aver richiamato, molto sinteticamente, il merito della decisione del Consiglio di Stato, vorrei evidenziare alcuni passaggi della motivazione a sostegno di tale decisione, che mi sembrano particolarmente significativi per orientare, in futuro, il componimento delle sempre possibili liti tra gli esponenti di professioni limitrofe.

Recita la sentenza (le sottolineature sono mie):

Tale limitato intervento indaginistico posto in capo agli uffici istruttori del ministero competente si spiega in ragione di due principali evidenze, da considerarsi nell’ambito di una lettura costituzionalmente orientata delle norme contenute nella l. 4/2013:

A) per un verso lo svolgimento di una attività professionale lecita è libero in base al principio secondo il quale la tutela costituzionale del diritto al lavoro non postula una rigida ripartizione delle varie attività lavorative fra categorie diverse, nè richiede la difesa degli appartenenti ad una categoria da iniziative concorrenziali di soggetti ad essa estranei” (così Cass. civ., Sez. un., 7 settembre 1989 n. 3879).

[…]

il sistema degli ordinamenti professionali di cui all’art. 33 Cost., comma 5, deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, “che appaiono sempre più necessarie in una società, quale quella attuale, i cui interessi si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessitàed alla tutela dei quali – e non certo a quella corporativa di ordini o collegi professionali, o di posizioni di esponenti degli stessi ordini– è, in via di principio, preordinato e subordinato l’accertamento e il riconoscimento nel sistema degli ordinamenti di categoria della professionalità specifica di cui all’art. 33, quinto comma, della Costituzione. Il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica(cfr. ad esempio le zone di attività mista tra avvocati e dottori commercialisti nel settore tributario anche contenzioso; degli ingegneri e architetti nel settore di determinate progettazioni; degli ingegneri o dei geologi in alcuni settori della geologia applicata e della tutela dell’ambiente; degli ingegneri e dottori in scienze forestali nell’ambito di talune sistemazioni montane)” (così Corte Cost. 21 luglio 1995 n. 345);

B) […] l’introduzione in sede europea del principio di massima concorrenza nell’ambito dei Paesi dell’Unione […] ha prodotto la creazione legislativa di un criterio di attuazione[…] in merito ai principi di cui agli artt. 3, 33 e 41 Cost., con la introduzione della norma […] che così dispone: “Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale,alla stregua dei principi costituzionali per i quali l’iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica. Su tale aspetto va rimarcato che solo sei mesi prima, con l’art. 3, comma 1, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 […] il legislatore nazionale aveva proclamato il principio secondo cui “(…) l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge[…]

A ciò si aggiunga che con il d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 […], all’art. 33 sono state introdotte disposizioni specifiche al fine di sopprimere limitazioni all’esercizio di attività professionalied all’art. 34 si è puntualizzato che le disposizioni in materia di liberalizzazione di ogni tipo di attività economica (e quindi anche per quanto concerne le professioni) sono adottate ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. e) ed m) Cost. “al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché per assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai beni e servizi sul territorio nazionale” (comma 1) e che “La disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità” (comma 2), abrogando al successivo comma 3 talune restrizioni allo svolgimento di attività economiche e professionali disposte da “norme vigenti”.

Mi sembra che le argomentazioni prodotte dal giudice segnalino un’unica chiave di lettura: tutte le attività professionali godono (nel nostro ordinamento) della massima libertà, con l’unico limite dei controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica. Tali limitazioni, controlli, divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso da interpretare ed applicare in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale. Certamente devono basarsi su norme di legge esplicite, trasparenti, di evidente e certa interpretazione, che garantiscano la certezza del diritto per chi desidera svolgere liberamente e serenamente un’attività professionale non normata.

Spesso mi è capitato di leggere, a favore o contro la legittimità dell’esercizio di una professione, argomentazioni che richiamano strutture normative di altri paesi, oppure le origini storiche di una certa attività che legittimerebbero diritti di primogenitura in capo all’una o all’altra delle parti in causa. Paradossalmente, si tratta solitamente di una dialettica, adottata da entrambi i contendenti per giungere, puntualmente, a conclusioni diametralmente opposte.

Sono argomenti che non reggono alla luce del quadro normativo richiamato dal Consiglio di Stato: l’unica normativa di riferimento è quella vigente in Italia, che non può essere interpretata e applicata secondo un principio di estensione analogica, addirittura alla luce di norme vigenti in altri paesi. Le leggi che pongono limiti all’esercizio di un’attività professionale devono essere interpretate in modo restrittivo, al fine di garantire al cittadino la maggiore libertà possibile nella sua iniziativa economica.

Con riferimento al caso di specie, dunque, possiamo concludere che, se l’art. 348 c.p., combinato con l’art. 1 della Legge n. 56/89 configura senz’altro come reato l’utilizzo di strumenti conoscitivi e di intervento in ambito psicologico da parte di chi non è iscritto all’ordine degli psicologi, non pare viceversa sussistere oggi alcun conforto normativo, nel nostro ordinamento giuridico, che legittimi la tesi che vorrebbe ricondurre in via esclusiva il marchio counseling alla professione di cui al predetto art. 1 L. n. 56/89.